Benedetta Tobagi (Milano, 1977). Laureata in filosofia, PhD in storia presso l’Università di Bristol (Uk), ha proseguito le ricerche sullo stragismo con una borsa di ricerca presso l’Università di Pavia. È stata conduttrice radiofonica per la Rai e collabora con «la Repubblica». Nel 2011 ha vinto il Premiolino, per la sua attività giornalistica. Dal 2012 al 2015 è stata membro del Consiglio di Amministrazione della Rai. Segue progetti didattici sulla storia del terrorismo con la Rete degli archivi per non dimenticare.
Ha pubblicato i volumi Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre (Einaudi 2009 e 2011), Una stella incoronata di buio. Storia di una strage (Einaudi 2013 e 2019), La scuola salvata dai bambini. Viaggio nelle classi senza confini (Rizzoli 2016 e 2017), il saggio Piazza Fontana. Il processo impossibile (Einaudi 2019) e Giona (Piemme 2020).
In Italia, dopo la caduta del Fascismo, riprese vita un movimento anarchico e libertario che nel settembre 1945, al Congresso di Carrara, costituì la Federazione anarchica italiana (FAI). Il movimento entra in crisi a causa di dissidi interni e nel 1965 la FAI conosce una scissione, provocata soprattutto da dissensi sulle modalità organizzative, da cui nascono i Gruppi d’iniziativa anarchica (GIA).
Dalla fine degli anni Sessanta, in Italia, come nel resto d’Europa, l’anarchismo ha una ripresa sull’onda del fenomeno della contestazione giovanile, che dura fino agli anni Settanta. All’epoca, il movimento anarchico organizzato è diviso in tre componenti: alla FAI e ai GIA si aggiungono infatti i Gruppi anarchici federati (GAF), nati sull’onda delle proteste studentesche e operaie dell’“autunno caldo” del 1969. Fondati a Venezia nel gennaio 1970 si sciolgono a Milano 8 anni dopo, nel gennaio 1978.
Nel 1969 nasce inoltre una delle realtà più significative di quel periodo, la Crocenera anarchica. L’iniziativa, promossa da Giuseppe Pinelli, Amedeo Bartolo e Umberto Del Grande, a cui si uniscono successivamente Enrico Maltini e Ivan Guarnieri, prende il nome dall’organizzazione a sostegno degli anarchici perseguitati in Russia attiva all’inizio del Novecento e si propone di diffondere informazioni sulla repressione anti-anarchica nel mondo, in particolare organizzare aiuti per le vittime libertarie della repressione franchista in Spagna.
A partire dal 1969, gli ambienti anarchici sono oggetto di manovre dell’Ufficio Affari riservati e degli uffici politici delle questure, da esso dipendenti, volte a criminalizzarli, attribuendo loro la responsabilità di attentati terroristici sempre più gravi. L’arresto di alcuni anarchici falsamente accusati delle bombe del 25 aprile 1969 a Milano, proprio mentre era in preparazione il primo bollettino, portò la Crocenera a concentrarsi sulla denuncia di mistificazioni e situazioni critiche in Italia e sull’aiuto legale ed economico ad arrestati e inquisiti. Un lavoro che diviene ancora più intenso e urgente dopo la Strage di piazza Fontana.
Un altro polo di aggregazione importante è «“A” Rivista anarchica». Attiva a partire dal 1971, vende circa 7-8.000 copie, diventando di gran lunga la più diffusa pubblicazione libertaria. Tra Milano, Roma e la Toscana, soprattutto, sono attive poi una miriade di circoli e piccoli gruppi, non sempre strettamente o direttamente riconducibili ai soggetti principali.
Il movimento, in quegli anni, nonostante i proclami di alcuni dei suoi esponenti più radicali, non pratica il terrorismo, eccezion fatta per alcuni attentati dimostrativi contro obiettivi simbolici (nel solco della tradizione della “propaganda del fatto”), che non fanno mai vittime.
Per avvicinarsi alla realtà multiforme del movimento anarchico è utile quindi soffermarsi sulle biografie di alcuni personaggi rappresentativi che, loro malgrado, divennero protagonisti delle vicende politiche, sociali e giudiziarie tra la fine degli anni Sessanta e il decennio successivo.
1. Gli anarchici accusati delle bombe del 25 aprile 1969
A Milano, la sera del giorno della Liberazione del 1969 scoppiano due bombe, una all’Ufficio cambi della Stazione centrale, l’altra alla Fiera Campionaria, provocando molti danni, alcuni feriti ma fortunatamente nessuna vittima.
Ben presto le indagini dell’Ufficio politico della Questura si indirizzano verso un gruppetto di anarchici, Paolo Braschi, Angelo Pietro Della Savia, Paolo Faccioli e Tito Pulsinelli, arrestati tra la primavera e l’estate (principalmente in base a confessioni estorte con la forza e alle accuse di una “superteste”, Rosemma Zublena, già legata sentimentalmente al Braschi, che si rivelerà del tutto inattendibile) e accusati anche di una lunga sequenza di attentati dinamitardi precedenti, a partire dall’aprile 1968.
Gli anarchici arrestati frequentano il gruppo anarchico Materialismo e Libertà (animato dai coniugi Corradini, tramite cui gli inquirenti milanesi cercheranno di coinvolgere nell’inchiesta Giangiacomo Feltrinelli e la sua compagna Sibillla Melega, poiché abitavano nello stesso palazzo, in zona Brera) e vivono quasi tutti in situazioni di forte marginalità sociale.
Paolo Braschi, per esempio, livornese, 25 anni nel 1969, vive con la madre e il fratello minore in condizioni di ristrettezze economiche. Ha la licenza elementare, è disoccupato e sbarca il lunario lavorando come imbianchino e facendo lavoretti; con Valpreda, realizza e vende lampade Liberty. Dopo aver frequentato gli ambienti anarchici della sua città, nel 1968 si trasferisce a Milano in cerca di lavoro, e qui conosce Pietro Valpreda e gli altri compagni.
Angelo Pietro Della Savia, nato nel 1949 a San Vito al Tagliamento, in Friuli, ultimo di 4 figli, a causa della separazione dei genitori subito dopo la sua nascita non conoscerà mai il padre e vive in collegio fino ai dieci anni. Lascia la scuola a 15 anni, lavora per un po’come elettrotecnico e poi si dedica anche lui, con Valpreda e Braschi, alle lampade Liberty, per arrangiarsi. Quando è arrestato non ha fissa dimora da almeno cinque anni. Si è avvicinato all’anarchismo attraverso il fratello maggiore, Olivo, detto Ivo, figura simbolo della campagna antimilitarista e per l’obiezione di coscienza, già incarcerato per più di un anno perché renitente alla leva nel 1965 (firmeranno e pubblicheranno un manifesto in suo favore, insieme a Giuseppe Pinelli e altri anarchici, anche personaggi come Marco Pannella), che sarà imputato insieme a Pietro Valpreda per la Strage di piazza Fontana.
Paolo Faccioli, originario di Bolzano, appartiene invece a una famiglia della borghesia cittadina (il padre è primario di chirurgia, la madre insegna latino e greco al liceo). Comincia a interessarsi alla politica al liceo, frequenta Feltrinelli e gli ambienti anarchici milanesi, quando viene arrestato frequenta il primo anno di università a Pisa.
Quando scoppia la bomba in piazza Fontana sono tutti in carcere in attesa di processo, mentre Pinelli e gli altri compagni della Crocenera si danno da fare per aiutarli. E già nel corso del dibattimento di primo grado, celebrato tra il 22 marzo e il 28 maggio 1971, il castello d’accuse formalizzato dal Giudice Istruttore Antonio Amati crolla, anche grazie al contributo del Pubblico Ministero d’udienza Antonino Scopelliti.
In primo grado, gli imputati sono pienamente assolti dalle bombe del 25 aprile, e ritenuti del tutto estranei a 12 dei 18 attentati loro attribuiti in istruttoria; le condanne si limitano a episodi minori (che il PM aveva chiesto di derubricare da strage a semplice esplosione a scopo terroristico). Braschi, in concorso con Della Savia, è giudicato colpevole di detenzione e fabbricazione di esplosivi e degli attentati di Genova e Livorno (ordigni esplosi nel dicembre 1968 rispettivamente contro l’Ufficio Annona del Comune e all’ingresso del Palazzo di Giustizia), Della Savia anche per i tre attentati del febbraio-marzo 1969 a Roma, nei pressi del Senato e di sedi ministeriali, e quello alla Banca d’Italia a Milano (16 giugno 1968); Faccioli e Della Savia sono condannati infine per la bomba al Palazzo di Giustizia di Roma (31 marzo 1969). I tre condannati ricorrono in appello.
La sentenza di secondo grado, pronunciata il 7 aprile 1976, assolve Faccioli e conferma le condanne di Braschi e Della Savia, ma con notevoli riduzioni di pena; il verdetto è confermato in Cassazione il 2 dicembre 1976.
In seguito, nel corso del processo per la Strage di piazza Fontana sarà accertata la responsabilità dei terroristi neri Franco Freda e Giovanni Ventura per gli attentati milanesi del 25 aprile e le altre bombe della primavera-estate 1969.
2. Giuseppe Pinelli (Milano, 21 ottobre 1928 - 16 dicembre 1969)
Figlio del ferroviere Alfredo e di Rosa Malacarne, cresce nel quartiere popolare di Porta Ticinese, a Milano. Le condizioni economiche della famiglia non gli permettono di continuare gli studi dopo la licenza elementare e deve andare a lavorare, prima come garzone, poi come magazziniere, ma coltiva per tutta la vita la passione per i libri e lo studio, da autodidatta.
Dal 1944, sedicenne, partecipa alla Resistenza come staffetta della Brigata “Franco”, collaborando con un gruppo di partigiani anarchici, attraverso cui viene in contatto con il pensiero libertario.
Nel 1954 entra nelle ferrovie come manovratore e nel 1955 si sposa con Licia Rognini, sua coetanea nata a Senigallia, figlia di un falegname anarchico, che conosce a un corso serale di esperanto al Circolo filologico milanese; insieme avranno due figlie, Silvia e Claudia.
Dopo il matrimonio la loro piccola casa diventa un luogo d’incontro, di confronto, di dibattito e di convivialità aperto a tutti, frequentato non solo da anarchici ma anche da militanti della variegata galassia della sinistra, da studenti e ricercatori universitari che si fanno battere a macchina da Licia le tesi di laurea, tra cui molti esponenti del cattolicesimo progressista, tra cui quelli che aderiscono – come Pinelli – al movimento di obiezione di coscienza alla leva: personaggi come Giuseppe Gozzini e Bruno Manghi, che avranno un ruolo importante nella battaglia per la verità dopo la sua morte.
Dai primi anni Sessanta, Pinelli milita nel gruppo anarchico Gioventù libertaria; nel 1965 è tra i fondatori del circolo milanese “Sacco e Vanzetti”, dove si stampa la rivista «Mondo beat»; dopo lo sfratto, il suo impegno politico continua presso il circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa” inaugurato il 1° maggio 1968 in piazzale Lugano, nel quartiere operaio della Bovisa, poco distante dalla stazione ferroviaria di Porta Garibaldi, dove Pinelli lavora.
È tra coloro che tengono aperta la sede, organizza il servizio-libreria, è tra gli organizzatori di intensi cicli di conferenze serali. E, potendo viaggiare gratis in treno in quanto ferroviere, tiene i contatti diretti con gli altri gruppi anarchici sparsi per l’Italia.
Collabora inoltre alla sistemazione di una seconda sede per gli anarchici milanesi nella zona sud della città, il circolo di via Scaldasole, nel Ticinese, il quartiere della sua infanzia, e, nel 1969, alla fondazione della Crocenera anarchica. L’impegno con quest’ultima organizzazione si fa subito particolarmente intenso con l’arresto di alcuni compagni anarchici per le bombe del 25 aprile.
Pinelli è noto alla Questura, il suo interlocutore è perlopiù il giovane commissario dell’Ufficio politico Luigi Calabresi. Quando, nel tardo pomeriggio del 12 dicembre 1969, subito dopo la bomba di piazza Fontana, Calabresi si presenta al circolo di via Scaldasole e invita Pinelli a recarsi in Questura, questi acconsente senza problemi e segue in motorino l’auto della Polizia.
In Questura, Pinelli incontra gran parte degli anarchici milanesi, fermati come lui per chiarire le proprie posizioni.
Pinelli è trattenuto oltre il limite di 48 ore, nonostante la magistratura non abbia convalidato il fermo di Polizia, viene interrogato per ore. Intorno alla mezzanotte tra il 15 e 16 dicembre, precipita dalla finestra della stanza di Calabresi al quarto piano della Questura (il commissario però, stando alle ricostruzioni giudiziarie, non si trovava nella stanza al momento del fatto), e muore poco dopo all’Ospedale Fatebenefratelli.
Quella stessa notte, il Questore Marcello Guida e il capo dell’Ufficio politico Antonino Allegra, alla presenza di Calabresi, indicono una conferenza stampa in cui affermano – mentendo - che Pinelli si è suicidato, disperato, davanti alle evidenze che la bomba era anarchica.
La prima inchiesta sulla sua morte è archiviata in brevissimo tempo.
Una seconda indagine per valutare l’ipotesi di omicidio, condotta a partire dal 1971 dal Giudice Istruttore Gerardo D’Ambrosio, si conclude solo nel 1975, con una sentenza-ordinanza che suscita molte perplessità: escluso il suicidio e l’omicidio, conclude che la causa probabile della caduta sia stato un malore (i critici scherniscono l’ipotesi riassumendola nella formula del «malore attivo»).
Nel frattempo, il 17 maggio 1972, il commissario Luigi Calabresi, ritenuto responsabile della morte di Pinelli dalla sinistra extraparlamentare e da larghi settori dell’opinione pubblica progressista, è stato assassinato sotto casa da esponenti di Lotta Continua, come sarà accertato in sede giudiziaria molti anni dopo.
La documentazione dell’Ufficio Affari riservati ritrovata in un deposito sulla circonvallazione Appia a Roma nel 1996 ha permesso di ricostruire i tentativi di criminalizzare Pinelli, insieme ad altri anarchici, ben prima della strage: in particolare, la documentazione mostra i tentativi di farlo apparire implicato nella preparazione degli attentati ai treni della notte tra l’8 e il 9 agosto 1969, nonostante fosse del tutto estraneo ai fatti.
Le circostanze della morte di Pinelli non sono mai state chiarite, e nessuno ha dovuto rispondere in sede penale delle calunnie diffuse a suo carico né del fatto che fosse trattenuto illegalmente in Questura.
Nel 2009, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha voluto rendergli pubblicamente omaggio in occasione del “Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice” (9 maggio) con queste parole: «Rispetto ed omaggio dunque per la figura di un innocente, Giuseppe Pinelli, che fu vittima due volte, prima di pesantissimi infondati sospetti e poi di un’improvvisa, assurda fine [...] un uomo, di cui va riaffermata e onorata la linearità, sottraendolo alla rimozione e all’oblio».
3. Pietro Valpreda (Milano, 23 agosto 1933 - 6 luglio 2002)
Figlio di Emilio ed Ele Lovati, cresce in un quartiere popolare milanese, affidato soprattutto alle cure della prozia Rachele Torri. Vive nella marginalità e in gioventù si dedica a piccole attività illegali: nel 1956 è condannato per rapina a mano armata, nel 1958 per contrabbando.
Tenta una carriera come ballerino, si esibisce in alcune riviste a teatro e anche in trasmissioni della RAI, ma per sbarcare il lunario si dedica anche ad altre attività, come la costruzione di lampade di vetro in stile liberty, insieme al compagno Ivo Della Savia (fratello dell’imputato, poi assolto, per le bombe del 25 aprile).
A Milano, a partire dal 1963, frequenta gli stessi ambienti di Pinelli, dalla Gioventù libertaria al circolo "Sacco e Vanzetti", al "Ponte della Ghisolfa", da cui però progressivamente si distacca, attratto da posizioni più radicali ed estremiste, fino a essere allontanato proprio da Pinelli.
Trasferitosi a Roma, frequenta il circolo "Bakunin", da cui si stacca nel novembre 1969 per creare un proprio gruppo, il “22 marzo” (in omaggio alla data d’inizio del Sessantotto francese), insieme a Mario Merlino, già militante del gruppo neofascista Avanguardia nazionale, che afferma di essersi convertito all’anarchismo. Il “22 marzo” è guardato con sospetto dalla Fai proprio per l’elevato rischio di infiltrazioni. In effetti si scoprirà che il gruppo era frequentato anche da un agente di p. s. sotto copertura, Salvatore Ippolito.
Il 15 dicembre 1969, a Milano, Valpreda è arrestato e, a seguito della testimonianza del tassista Cornelio Rolandi, che afferma di riconoscere il lui l’uomo con una borsa di pelle pesante che aveva accompagnato alla Banca nazionale dell’Agricoltura poco prima dell’esplosione, viene accusato di aver portato la bomba della Strage di piazza Fontana. Con lui sono incriminati altri compagni del circolo “22 marzo”.
Dal momento dell’arresto, Valpreda è oggetto di una campagna di criminalizzazione di violenza inaudita da parte di stampa e tv, nonostante abbia un alibi (la prozia Rachele ha testimoniato che il pomeriggio del 12 dicembre il nipote era a casa sua con l’influenza, e per questo è stata incriminata per falsa testimonianza) e il suo avvocato difensore Guido Calvi abbia fatto mettere a verbale al PM Vittorio Occorsio come il Rolandi avesse dichiarato che, prima del confronto gli era stata mostrata dai Carabinieri di Milano una fotografia del ballerino anarchico, dicendogli che era la persona che avrebbe dovuto riconoscere – un fatto che invalidava alla radice il riconoscimento.
A dispetto di queste e molte altre incongruenze, e nonostante l’emergere di lì a breve di una pista neofascista alternativa a quella anarchica per la strage, Valpreda rimane in carcere fino al 1972, quando, in risposta alle pressioni di un’opinione pubblica ormai in larga parte persuasa dell’innocenza degli anarchici, il Parlamento aveva varato la cosiddetta “legge Valpreda” (n. 773 del 15 dicembre 1972), che aboliva il divieto di concedere la libertà provvisoria nel caso di delitti in cui il mandato di cattura fosse obbligatorio (come la strage), e sarà assolto in via definitiva soltanto nel 1987.
La documentazione dell’Ufficio Affari riservati, ritrovata in un deposito sulla circonvallazione Appia a Roma nel 1996, ha consentito di ricostruire la macchinazione per criminalizzare Valpreda, Pinelli e altri anarchici, cominciata ben prima della Strage di piazza Fontana.
4. Francesco (Franco) Serantini (Cagliari, 16 luglio 1951 - Pisa, 7 maggio 1972)
Figlio di genitori ignoti, abbandonato in orfanotrofio, all’età di due anni è adottato da una coppia di anziani senza figli in Sicilia e, dopo la morte prematura della madre, affidato ai nonni, con cui vive fino ai 9 anni, per poi essere mandato a vivere in un istituto di assistenza in Sardegna. Nel 1968, a 17 anni, viene assegnato in semilibertà al riformatorio di Pisa, sebbene non abbia subito alcuna condanna.
A Pisa, mentre studia da contabile, comincia a frequentare gli ambienti della sinistra extraparlamentare e poi, dalla seconda metà del 1970, il gruppo anarchico intitolato a Giuseppe Pinelli, presso la federazione anarchica pisana (aderente ai GIA, vedi sopra), con cui partecipa alle iniziative antifasciste e alla campagna di controinformazione in difesa di Valpreda.
Il 5 maggio 1972, Serantini prende parte alla manifestazione di protesta indetta da Lotta continua contro il comizio del deputato missino Giuseppe Niccolai. Il corteo viene represso con violenza dai reparti della Celere di Roma, inviati a Pisa per l’occasione. Serantini, circondato dagli agenti sul lungarno, viene picchiato brutalmente.
Tratto in arresto, è trasferito prima in una caserma di Polizia e poi al Carcere "Don Bosco". Quando viene interrogato, il giorno seguente, manifesta uno stato di malessere generale, ma il giudice, le guardie carcerarie e il medico non ritengono che la situazione sia tale da destare preoccupazioni.
Dopo quasi due giorni di agonia, Serantini viene trovato in coma nella sua cella e trasportato al pronto soccorso del carcere, dove muore alle 9.45 del 7 maggio. Il giorno stesso, la dirigenza del carcere cerca di ottenere l’autorizzazione a seppellire subito il cadavere, ma il Comune rifiuta, mentre la notizia della morte del giovane anarchico si diffonde.
I funerali di Serantini, il 9 maggio 1972, vedono una massiccia partecipazione popolare. Luciano Della Mea, antifascista e militante storico della sinistra pisana, con il professor Guido Bozzoni, si costituisce parte civile avviando un procedimento per accertare le cause della sua morte, mentre si svolge un’ampia campagna di controinformazione che denuncia la responsabilità delle forze dell’ordine e la gestione violenta dell’ordine pubblico. Ma l’inchiesta è affossata dalle testimonianze degli agenti di pubblica sicurezza, che affermano di non ricordare nulla.
Il sovversivo, il libro che il giornalista Corrado Stajano dedica alla vita e alla morte di Serantini, pubblicato nel 1975, ha un ruolo fondamentale nel far conoscere al grande pubblico la sua storia, che diviene una vicenda-simbolo degli abusi di potere consumati in quegli anni, soprattutto a danno dei soggetti più fragili.
Nel 1979, gli anarchici di Pisa dedicano a Serantini una biblioteca, mentre nel 1982 viene inaugurato il monumento in suo onore, di fronte al riformatorio in cui aveva vissuto.
Bibliografia essenziale
Giampiero Berti, Contro la storia. Cinquant’anni di storia dell’anarchismo in Italia (1962-2012), Biblion edizioni, Milano 2016.
Gabriele Fuga ed Enrico Maltini, Pinelli. La finestra è ancora aperta, Edizioni Colibrì, Paderno Dugnano (MI) 2017.
Paolo Morando, Prima di piazza Fontana. La prova generale, Laterza, Roma-Bari 2019.
Sitografia
Centro studi libertari - Archivio "Giuseppe Pinelli"